Il primo maggio del 1947 all’incrocio con la 33esima strada un capannello di gente si stringeva attorno alla limousine di un funzionario delle Nazioni Unite.Sul tetto dell’auto, incurvato come una culla metallica, c’era il corpo di Evelyn McHale che poco prima era salita all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building, aveva appoggiato con grazia il soprabito alla balaustra, aveva scavalcato il parapetto e si era gettata nel vuoto.
Il suicidio più bello. Con queste parole è conosciuta la morte di Evelyn, contabile ventitreenne la cui foto pubblicata su Life Magazine del 2 maggio ha fatto il giro del mondo ed è diventata iconica. È la foto di una bella addormentata, non di una suicida. Uno scatto perfetto, fatto d’impulso da un giovanissimo fotografo che suggellò con quel click la bellezza e l’apparente serenità di quella ragazza che non arriverà mai ad essere la brava moglie di nessuno.Evelyn è intatta, tiene fra le dita la collana di perle, le gambe leggermente sovrapposte con le caviglie incrociate. Involucro fragile, nella morte come nella sua breve vita.
“Non voglio che nessuno mi veda, nemmeno la mia famiglia. Fatemi cremare, distruggete il mio corpo. Vi supplico: niente funerale, niente cerimonie. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno. Ma io non sarei mai la brava moglie di nessuno. Sarà molto più felice senza di me. Dite a mio padre che, evidentemente, ho fin troppe cose in comune con mia madre.”
Questo è il biglietto che Evelyn lasciò prima di gettarsi.
Quella di Evelyn è un’assenza pesante e presente.Come in un fermo immagine lei rimane la figura centrale sulla quale i vivi continuano a interrogarsi, a specchiarsi, a cercare risposte che non troveranno e che lei non potrà dare.Perché forse, alla fine, ciò che colpisce davvero una riga dopo l’altra è il senso di separatezza nei confronti del mondo e non il suicidio come ultima ratio. “Non cercavo l’incontro, ma la prossimità”.
Ogni capitolo è una persona, una situazione, una vita il cui filo, a volte sottilissimo ma tenace, era in qualche modo legato a Evelyn.Ognuno si trova a fare i conti con la sua presenza prima e la sua assenza poi.La madre, la sorella, il fidanzato, le compagne dell’esercito ma anche il fotografo che scatta la foto e la redazione di Life, che a dispetto del nome della rivista ebbe il coraggio di pubblicare come Picture of the week la foto di una morta.
L’impotenza, la disperazione, la curiosità.I disorientamento, il “non l’avrei mai detto”. Lo stupore, la commozione davanti a un corpo che riconosci e che hai paura che si possa disintegrare se solo osi toccarlo. Questo libro si insinua dritto sotto pelle come una scheggia che non riesci a estrarre. Vi avverto.
"Io non lo so come fanno gli altri. A me le emozioni arrivano tutte addosso come proiettili. Sono una che nella vita ha collezionato solo nuove ferite, una dopo l’altra. Ormai si sono cicatrizzate, non c’è più rimedio. Il fatto è che, quando le cose ti feriscono, non hai altra possibilità che portartene addosso i segni. Quello che ti succede ancora più dentro, invece, è un’altra cosa. Ché le intenzioni – soprattutto quelle buone – e i rimorsi – specialmente quelli onesti –, dentro di sé ognuno se li gioca quanto e come vuole. Può riempirli di contraddizioni, di ambiguità, fargli fare un tuffo carpiato tra il possibile e il probabile. Può persino diventarci pazzo”.
La foto foto di Evelyn McHale ebbe una tale potenza che Andy Warhol la utilizzò per la sua serie “Death and Disaster” (1962-67) creando l’opera intitolata “Fallen Body”.
Nadia Busato
Non sarò mai la brava moglie di nessuno
SEM editore, 2018