Alcune volte è bene “lasciar decantare” alcune letture. Questo è uno di quei casi.
Così come la neve del libro, ho atteso che si sciogliesse il grumo di emozioni che queste pagine mi hanno lasciato.
Inizio da quella che ho inteso come un rito di iniziazione: la descrizione- nelle prime pagine – dell’assenza di igiene di Adelmo mi ha procurato quasi un conato di vomito. L’ho presa così: se riesci a superare questo, ti dò il permesso di inoltrarti nel sentiero e di leggere il resto del libro! Così è stato, per fortuna.
Un libro per cinque sensi
È un libro talmente denso di chiavi di lettura che fatico a sceglierne una, così mi affido ai cinque sensi.
L’udito.
È un libro sonoro. Tutti hanno una voce molto definita all’infuori di Adelmo che ha quasi disimparato a parlare e fatica ad esprimersi. Ritrova la sua voce solo grazie al cane, personaggio spettacolare dotato di quella prontezza e quell’ironia che a lui mancano. (ma gli parlerà davvero?) Parla la montagna, con i boati degli smottamenti. Parla la neve, che cigola piano. Parla l’acqua, ovviamente parlano gli animali e parlano anche i morti. Parlano persino i cavi dell’alta tensione, incessantemente. Non c’è tregua, nemmeno per un secondo. Ed è forse questa la tensione più forte dell’intero libro. Un uomo scappato che non torna più indietro perché sceglie la modalità di comunicazione per lui più semplice: il “silenzio”.
La vista.
È un libro in bianco e nero. Grigie le pietre, bianca la neve, nera la parete della miniera. L’unico colore che irrompe in modo violento è l’azzurro del cielo, che entra come una lama tagliente nella baita. Ci si guarda molto in questo libro. Ci si spia, ci si studia. Allontanandosi di qualche passo, come farebbe un fotografo, vedo che è anche un libro di vuoti e di pieni: è vuota la baita, è piena di neve la valle. È pieno di detriti il cunicolo della miniera, è vuoto abissale sotto la baracca del bivacco. I vuoti e i pieni si invertono, con un lavoro lento nello spostare pietre, scostare detriti, far smottare costoni di neve. E poi riempire nuovamente, altrove.
L’olfatto.
È un libro che puzza. Ti costringe a un’apnea lunga 138 pagine perché è pieno di odori che è difficile sopportare. Gli odori che il cane segue come piste tracciate da una mano misteriosa. Odore di cibo putrefatto, di cadavere e odori dimenticati di una vita stratificata, quelli sulla pelle di Adelmo. Una violenza che non ti aspetti quella degli odori, perché quelli nati nel piattume (che sono i più) pretendono una montagna uguale a quella vista in cartolina, profumata di fiori e di fieno, con aromi antichi di latte e formaggio.
Il gusto.
È un libro acre. Non si fanno sconti, nemmeno sul pane, “che quello dell’anno scorso era più buono”. Si mangiano croste, si leccano pentole, si trangugiano tutti d’un fiato perfino manciate di inesistenti girini. La fame che c’è e allo stesso tempo si impara a domare come fosse una prova di volontà di cui vantarsi con gli amici al bar. La possibilità di sfamarsi scendendo a valle che viene rimandata di giorno in giorno, pur di non “spezzare l’idillio” della solitudine. Un gusto difficile da catalogare per chi come me non ha mai patito la fame della guerra.
Adelmo è solo travestito da protagonista. La prima donna è lei, la montagna. La montagna scandisce i ritmi. L’uomo e gli animali si piegano al suo volere. Perfino i morti ricompaiono solo quando lo decide lei.
Claudio Morandini
Neve, cane, piede
Exòrma editore, 2015