Niente è più presente di un’assenza.
Niente è più potente delle fantasie su quell’assenza. Il libro – autobiografico – di Gila Almagor racconta di una stagione della sua vita, della sua incredibile vita sarebbe più corretto dire, perché l’autrice di questo romanzo breve è molte, moltissime cose oltre che scrittrice.
Attrice, per esempio.
La più popolare, riconosciuta e premiata attrice israeliana.
Ma anche sceneggiatrice, conduttrice radiofonica, presidente di associazioni culturali e benefiche.
La manciata di giorni raccontata in queste pagine è l’estate dei suoi dieci anni.
Quanti anni ha una bambina di dieci anni?
Ancora pochi, se la vita ti si è srotolata davanti come un tappeto dai colori vivaci.
Molti di più, invece, se il destino ti ha voluta figlia di un ebreo tedesco fuggito e ucciso poco prima di poter diventare padre e di una polacca scappata anch’essa prima che l’intera famiglia venisse deportata ad Auschwitz.
Il dolore narrato è filtrato dagli occhi grandi e nerissimi di Aviha e, a fine lettura, mi piace pensare che siano stati proprio quegli occhi così profondi a inghiottirsi tutti i silenzi nei quali la futura First Lady del cinema israeliano ha dovuto navigare nella sua infanzia.
Era la prima volta che la mamma mi diceva che in me c'è qualcosa di simile a lui, che lo ricorda. Ora lo sapevo - I miei occhi sono come gli occhi di mio papà, non come quelli della mamma. E la mamma mi sorrise e poi chiuse gli occhi e continua a ballare e le sue lunghe ciglia riposarono sugli occhi, e lei era così distesa.
Gila nel libro prende il nome di Aviha, un “nome strano” che letteralmente significa «il padre di lei».
Lei che il padre non l’ha mai conosciuto e che si trova, ragazzina, a fare da madre a una mamma la cui mente si è crepata dal troppo dolore, congelata in un silenzio di affetto intermittente, che lei accoglie con pazienza, forza, amore e misericordia.
In questo libro troverete:
Profumo di bucato
Musica, valzer e buste di fotografie
Numeri, quelli dei deportati
Occhi. Curiosi, profondi, feriti e guariti
Lebben, anni ’50 e una giovane Israele
Briciole. Di passato, di amore, di felicità
Fiori
Teatro
Catarsi
Piccoli concentrati di stupore
A volte i libri più brevi sono così. Accenni di storie altre, accordi di note necessari a una sinfonia più grande, più lunga. L’estate di Aviha, nella sua semplicità di una scrittura cristallina, contiene una gamma di sfumature prese direttamente dalle tavolozze della storia, della sociologia, dell’arte e della malattia mentale.
A noi lettori intingere il pennello nel colore che più ci rappresenta, quello di cui abbiamo maggior bisogno per colorare il nostro spazio vuoto. Non serve forse a questo la letteratura?
Un nome come un mantra
Il cognome di Gila è Alexandrovich, ritenuto troppo “impegnativo” per calcare le scene del teatro israeliano: lo cambiò in Almagor, che significa “niente paura”.
Gila in ebraico è l’equivalente di Gioia.
Gila Almagor, Gioia Niente paura.
In certe vite bisogna dirselo ogni giorno: niente paura.
Il libro, scritto nel 1985 e tradotto in undici lingue, è una delle opere letterarie più iconiche della cultura d’Israele.
L'orso di fa d'argento per Gila
Nel 1989 Ha-Kaytz Shel Aviya (l’estate di Aviha) vince l’orso d’argento per il miglior contributo artistico al Festival internazionale del cinema di Berlino. La splendida Gila Almagor nel film interpreta sua madre.
Gila Almagor
L’estate di Aviha
Traduzione di Paola M.Rubini
Acquario libri, 2022