Il ruolo determina quasi sempre una relazione. La definisce, la sintetizza, la distilla in una parola. Padre, Madre, Maggiore e Minore. Questo è il quadro sul quale Michele Ruol apre il sipario.
Subito i nostri occhi vanno esattamente dove devono, impattando con una verità dalla quale vorremmo immediatamente distogliere lo sguardo.
“La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide”.
Non c’è scampo né ambiguità. Maggiore e Minore sono morti e i loro visi arrivano a noi grazie a una cornice in argento che li tiene uniti come in un abbraccio scintillante. Il loro sorriso è esposto al ricordo di chi passa per l’ingresso di casa e, nonostante lo sgomento iniziale, lo sguardo resta ben saldo sulla pagina perché, nelle poche righe che compongono il primo capitolo, la foto di questi due ragazzi trasmette tutta la morbidezza della vita, di quel momento dopo il pranzo di natale in cui è stata scattata. La camicia sbottonata, il viso arrossato. Chissà, ci sarà stato caldo? Avevano corso, cantato, bevuto? Siamo già dentro la cornice, la foto, la vita di Maggiore e Minore, Padre e Madre. Siamo nel primo di 99 capitoli.
C’è una casa della quale percorriamo ogni singolo ambiente e che percepiamo, man mano che il romanzo procede, come non più abitata. Qui la potenza vitale della natura ha prevalso sull’inanimato.
“Il pavimento è sconnesso: lo si nota soprattutto dall’inclinazione della libreria e della cassettiera - ancora immobili, ma cariche di rumore potenziale. Sembra che delle onde percorrano il parquet a spina di pesce, sollevandolo in più punti. Tra il letto e le due scrivanie i listelli sono completamente divelti: lasciano scoperte delle radici spesse e lucide che si infilano sotto agli altri tasselli, increspandoli a raggiera”.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia scandaglia la storia di una famiglia attraverso una prospettiva inedita, fatta di salti temporali fra un prima e un dopo. C’è una casa che custodisce quei 99 oggetti che danno il titolo ai rispettivi capitoli (una penna stilografica Pelikan, un casco da sci, uno strofinaccio a scacchi bianco/blu…).
Su ogni oggetto si affastellano le vicende familiari e personali di coloro che hanno riempito quelle stanze di parole, desideri e silenzi. È lo sguardo di chi è rimasto che ora li rende diversi, lo stesso sguardo che cercherà nella loro presenza conforto, verità, ricordo. Così il pentolino da latte, l’accendino Bic giallo, il cesto di vimini o le carte rosse dei cioccolatini incarnano un valore totalmente differente per chiunque altro; l’intensità emotiva dello sguardo su quel brandello di vita vissuta che è solo di chi sa.“Non ne avevano più parlato, Padre e Madre, non avrebbe avuto senso. In questa mancanza di senso stava l’inizio del loro scisma.
(Cap.19. Aspirapolvere a traino)”
La narrazione di questa vicenda è debitrice tanto agli oggetti quanto a ciò che li contiene: la casa e l’automobile, che come spazi scenici si prestano ad evocare stanzialità e movimento, lasciano ad ogni spettatore la possibilità di riallineare i frantumi, creando ciò che non c’era e che potrà essere.
In questo libro ogni piccolissimo particolare, anche una semplice foglia lanceolata e seghettata è indizio di un sentire più grande e profondo.
“Di’ tutta la verità ma dilla obliqua”, scriveva Emily Dickinson in una sua famosa poesia. Credo che con il suo romanzo Michele Ruol ci abbia regalato esattamente questo.
Il Romanzo di Michele Ruol non assomiglia a nulla che abbia letto in precedenza ma in un modo assolutamente intimo e sensoriale ho sentito in alcune pagine il sussurro di Agota Kristof, così come in altre in cui la natura fluisce ho percepito la potenza dei Quindicimila passi raccontati da Vitaliano Trevisan.
Michele Ruol
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia