Quattro foto, sempre quelle. Le conosciamo a memoria, eppure ogni volta lo sguardo indugia su un’ombra, un particolare, una sfumatura che la volta precedente ci era sembrata diversa. È la condanna di chi si deve far bastare ciò che resta.
Forse è proprio la quantità limitata – di fotografie, di libri, di oggetti e ricordi – che ci allena nel tempo a un esercizio di profondità. Lo sguardo impara a farsi ora carezza ora microscopio, perché si vorrebbe capire, svelare quel pensiero che non abbiamo fatto in tempo a far del tutto nostro quando ancora il dialogo poteva essere una possibilità.
Che libro, il libro di Roberto Ferrucci. Scrivo libro solo in quanto racchiuso entro un perimetro di carta, perché in verità è un viaggio, un volo a planare, una corsa a perdifiato, una risata cristallina che risuona in una laguna che fa di Venezia una presenza che ascolta e restituisce.
È uno sguardo lunghissimo su un sentimento antico di amicizia e complicità quello che l’autore è riuscito ad appoggiare in queste pagine.
Su una copertina totalmente bianca si staglia il ritratto di Daniele del Giudice fatto da Tullio Pericoli. Sarà un libro su di lui, mi dico. Sbaglio, e anche di molto. Il mondo che ha fatto, questo il titolo, è un libro “con” Daniele del Giudice.
Il suo fare, il suo dire, il pensare e anche il non dire è in ogni pagina, a fianco del fare, del dire e del pensare del suo amico Roberto Ferrucci.
È un libro analogico, mi dico. E questa volta ci azzecco. C’è una galleria vastissima ed emozionante di gesti oramai perduti. Lettere scritte a macchina, cartelline chiuse con spaghi, invio di fax, audiocassette, registratori che si inceppano. Sembra davvero un altro mondo e forse lo è.
Le parole della letteratura, quella autentica fatta di pensiero, passione e scambio, affiorano come boe, quasi a dettare la punteggiatura di un tempo passato eppure ancora vivissimo e pulsante nei cuori di chi ha percepito – leggendo Del Giudice – che qualcosa stava accadendo. È il desiderio di costruire un mondo denso di senso e al contempo lieve, capace di staccarsi da terra proprio come uno di quegli aerei su cui Daniele Del Giudice ha voluto portare Roberto Ferrucci, tanti anni fa.
L’autore ripercorre i momenti che hanno costellato il suo rapporto con Daniele Del Giudice: Ferrucci da timido studente universitario che sottopone il suo primo romanzo a colui che Calvino aveva nominato suo erede, diventa in breve l’amico fraterno con il quale condividere progetti e idee davanti a una pizza, o un disco, come la chiamava Daniele.
L’amicizia – questo sentimento meraviglioso e potente – è scandagliata con onestà esemplare e dolcissima. Così, leggendo le pagine sulla malattia di Del Giudice emerge in modo nitido l’umano sentire di chi impara a osservare la propria paura, e difficoltà e dolore, nel vedere un amico partire per un viaggio altro.
Ho letto che Roberto Ferrucci ha impiegato dodici anni a cucire i capitoli de “Il mondo che ha fatto”. Credo che poterlo leggere oggi, in un tempo in cui sono frequenti le occasioni nelle quali ci sembra di aver perso la rotta, sia davvero un privilegio.
Queste pagine ci danno la possibilità di ricominciare da lì, da dove le parole di Daniele Del Giudice hanno iniziato a farsi più fragili e trasparenti.
“Mi domando con quale sostantivo ci si allontana dalla memoria. Forse, di nuovo, con delicatezza, la stessa con cui è bello avvicinarsi ai suoi libri”.

Roberto Ferrucci
Il mondo che ha fatto
Nave di Teseo, 2025