Il commesso (The assisistant), di Bernard Malamud-apparso anche col titolo Il giovane di bottega.
Nel 1965, qualche mese prima che Il commesso venisse dato alle stampe, Malamud prende un anno sabbatico dall’insegnamento e parte con la famiglia alla volta dell’Italia.
In una tasca i quattromila dollari avuti “per meriti letterari” dalla Partisan Review con il patrocinio dalla Rockfeller Foundation, nell’altra il biglietto per andare da Covallis, Oregon, a New York, dove lui e famiglia si sarebbero imbarcati alla volta di Napoli per poi raggiungere Roma via treno.
A Roma i Malamud prendono in affitto un appartamento in via Lando. Di prima mattina Bernard scrive e nel pomeriggio vaga per la città eterna con al collo una Leica 35mm.
Fotografa scorci, visi, cattura atmosfere e perfino odori. Perché questo riescono a fare le persone acute, anche con una semplice fotografia.
Malamud studia i volti di cui abbiamo intravisto i tratti nei suoi romanzi, ne carpisce i profili, le espressioni originarie.
Ritrova le donne vestite di nero viste nella Brooklyn della sua infanzia, riconosce la luce, gli odori.
Si aggira nel ghetto, alla ricerca di una memoria ebraica visibile nelle persone sopravvissute agli orrori della guerra.
Ma Malamud era un grande e la complessità di certe sfumature era già dentro di lui anche senza questo viaggio.Ne il Commesso ad esempio.
Una bottega buia, cupa e misera quella di Morris Bober.
Una vita di privazioni, di sacrifici e di preoccupazioni per il futuro. Ché il domani è già un traguardo per lui costretto a contare i centesimi, a fissare la vetrina opaca nella speranza che la porta si apra e che qualche cliente possa recagli un po’ di sollievo.
Poi, in modo imprevisto, la monotonia viene spezzata dall’arrivo di un giovane di origine italiana. Frank Alpine è il suo nome. Frank è un goy, un “non ebreo”. Che ne sa lui di come ci si comporta? Dei valori, della dignità, dell’onestà? Eppure Frank insiste per lavorare nella bottega di Morris.
Inizia qua la storia di Frank e di Morris. Della moglie Ida e della figlia Helen. Inizia qui la storia di una lenta scoperta sulla vera natura di ognuno di noi. A dispetto delle apparenze e delle convenzioni.
Il commesso è un gran libro. E come tutti i grandi libri si presta a due cose.
A restarti appiccicato da qualche parte nel cuore, lavorando in sordina anche dopo settimane dalla lettura e suggerendoti diversi piani di lettura.Io ho scelto quello prospettico. Come sul palcoscenico di un teatro in questo libro c’è un davanti che si mostra e un retro in cui “accadono cose”.
C’è il davanti della bottega della famiglia Bober, con la vetrina spoglia in contrasto con quella dei concorrenti, acerrimi nemici che espongono merce prelibata per ingolosire i pochi clienti della via. C’è la facciata pulita dei pretendenti della figlia di Morris, la giovane Helen, una facciata apparentemente rassicurante, fatta di belle automobili, tramonti e promesse di borghesia. C’è il davanti di Ida, la moglie di Morris, che appare monolitica e irremovibile nella sua posizione di comando. Come un capitano tiene il timone del negozio quando Morris cade malato; dura, decisa e perseverante nella sua convinzione di non accettare aiuto da un goy.
E naturalmente c’è il davanti di Morris, l’integerrimo Morris che resiste stoicamente a tutto, alle aggressioni fisiche e morali senza mai cedere di un millimetro nell’osservanza della Legge.
E Frank? Qual’è la strana facciata di questo mezzo vagabondo così gentile e eppure così poco convincete? Quali tormenti lo rendono inquieto come un animale in gabbia? Frank non ce lo dice, perché lo sta scoprendo piano piano e noi insieme a lui, pagina dopo pagina.Poi c’è il dietro.Il retro del negozio, dove nonostante la povertà c’è sempre una tazza di the caldo per chiunque passi, dove c’è un giornale da leggere, anche se del giorno prima e un piatto di zuppa da offrire a quel Frank Alpine che di notte, di nascosto da tutti, trova rifugio proprio nella cantina dei Bober.
C’è il dietro di una vita pallidissima parvenza di privata in cui Ida, lontana dai doveri del negozio trova conforto ai suoi dolori.
C’è perfino il dietro di un parco, dove invece dei viali principali Helen e Frank scelgono un vialetto appartato che diventa un altrove sicuro, in cui forse anche goy e ebrei possono trovare linguaggi d’intesa.
E poi, su tutto e tutti c’è il dietro Frank, con il quale nemmeno lui vorrebbe e sa fare i conti.
Forse la parola magica di questo libro è “onestà”.
Onestà verso gli altri e verso se stessi.
L’onestà dei sentimenti e quella dei desideri che vengono in queste pagine seppelliti con straziante metodo, come bambini nati morti.
Malamud è un grande disegnatore e di prospettiva ne sa.
Perché come in un quadro sa dove mettere luce per illuminare il punto focale.
E quando Frank riesce a mettersi proprio lì, in quel punto preciso, quella è magia. È letteratura.
Bober, che è un uomo profondamente onesto e buono, dice al suo commesso “Quel che conta è la Torah. Questa è la Legge: un ebreo deve credere nella Legge (…) Significa comportarsi bene, essere onesti, essere buoni. Buoni con gli altri. La vita è già abbastanza difficile. Perché dovremmo fare del male a qualcuno? A tutti dovrebbe andare nel migliore dei modi, non solo a te o a me. Non siamo mica bestie. Ecco perché ci vuole la Legge. È in questo che credono gli ebrei”.
Bernard Malamud
Il commesso
Traduzione di Giancarlo Buzzi
Minimum fax, 2017
Bernard Malamud
The assistant
Farrar, Straus and Giroux (FSG), 1957