Mi piace immaginare che Paul Auster, grandissimo appassionato di baseball, abbia pensato a Yogi Berra quando decise di scrivere Follie di Brooklyn.
Il ricevitore degli Yankees, oltre ad essere una leggenda del diamante, è passato alla storia anche per i suoi aforismi.
“non è finita finché non è finita” è una delle frasi marchiate “Berra” ed è anche, secondo me, la perfetta sintesi del quinto romanzo di Auster.
L’idea che Brooklyn fosse un buon posto per morire sarebbe stata anche accettabile per uno come Nathan Glass: spesso nei momenti cruciali si sceglie di tornare nei propri luoghi, quegli stessi luoghi lasciati nei propri anni migliori per inseguire le cose della vita.
Assicuratore in pensione con un cancro in apparente remissione, una ex moglie e una figlia molto amata ma fisicamente ed emotivamente distante.
Quale decisione migliore, quindi, se non quella di tornare nel microcosmo di Brooklyn, per ritrovare la sua città natale, il quartiere tanto amato e, con un po’ di fortuna, anche ciò che rimane di sé stesso?
Partenza, trasloco e decisione di tenere una sorta di diario perché anche a Brooklyn un modo per fa passare il tempo lo si deve pur trovare!
“Lo intitolai Il libro della follia umana, e pensavo di riportare in esso, con il linguaggio più semplice e chiaro possibile, il racconto di tutti gli svarioni e capitomboli, i pasticci e i pastrocchi, le topiche e le goffaggini in cui ero caduto nella mia lunga e movimentata carriera di uomo”.
Un progetto più che interessante per un pensionato disilluso. Forse in un altro luogo della terra sarebbe stato possibile, ma a Brooklyn – nella Brooklyn di Paul Auster – no.
Qui la vita bussa alla porta e se ne frega dei tuoi progetti pseudo letterari, della tua malattia e della tua disillusione.
Qui c’è un nipote (Tom) che si è fatto uomo e che devi imparare a conoscere nuovamente. C’è una donna bellissima di cui si è innamorato senza speranza. Una cameriera deliziosa per la quale sei disposto a consumare i tuoi pasti sempre nello stesso locale. C’è un libraio curioso e misterioso che probabilmente non te la sta raccontando giusta. E poi, d’incanto, c’è la piccola Lucy, una ragazzina di nove anni e mezzo catapultata dal Vermont a Brooklyn con in mano solo qualche dollaro.
Eccola qua la vita.
E tu, Nathan Glass assicuratore in pensione che volevi solo un posto tranquillo per morire ti ritrovi a comprare collane da regalare, figlie da consolare, quadri da vendere, libri antichi da sfogliare e cieli da guardare.
La vita bussa, e a volte entra senza chiedere permesso.
Il finale (no spoiler)
Le ultime righe di questo libro sono talmente belle che davvero vorresti vedere Paul Auster battere i tasti di altri dieci, cento libri.

Paul Auster
Follie di Brooklyn
Traduzione di Massimo Bocchiola
ET Einaudi, 2007