Nero, ruvido, straniante.
Giovanni Arpino nel 1980 si aggiudica il Campiello con Il fratello italiano. Non è una questioni di premi, però, anche se lui di premi ne vinse parecchi fin dal suo folgorante esordio con Sei stato felice, Giovanni.
Piuttosto è una questione di stile, talento, di rara qualità narrativa.
Carlo Botero e Raffaele Cardoso sono due pensionati. Maestro il primo, contadino il secondo. Si conoscono per caso in un cencioso bar di unaTorino dall’aria immobile, in un agosto capace di fiaccare qualsiasi vitalità. Eppure questi uomini così distanti per cultura e provenienza geografica si riconoscono come fratelli in un compito che nessuna persona dovrebbe concepire nemmeno nel peggiore degli incubi.
Il maestro Botero, che uno se lo immagina a fare lezione a una classe di ragazzini. Riservato, chiuso a riccio nel suo appartamento sempre in penombra a bere Campari e fumare cattive sigarette. Un gatto di nome Stalin con il quale parla e una figlia di nome Stella che ad ogni visita sembra portare in dono solo carichi di delusione.
Eppure Stella è figlia, e come tale va accontentata anche quando chiede l’assurdo.
Pepito, quel marito preso per sbaglio o disperazione le sta rendendo la vita impossibile e deve essere eliminato.
Botero è un maestro e i ragazzi li cresce, mica li ammazza. Ma Stella è figlia e come tale non si può ignorare.
“Giustizia è parola difficile. È solo idea. La giustizia nasce dall’offesa. Perché se non c’è offesa chi pensa alla giustizia?”
Indimenticabile Cardoso
Cardoso è calabrese, una vita di fatiche e una voce rugginosa che sembra uscirgli a fatica, per disabitudine più che per volontà.
Ora che alla terra ha dato tutto riparerà in Germania, dove lo aspetta una vita di quiete e tranquillità accanto a quel figlio maschio partito dal paese tempo prima.
Prima, però, la tappa obbligata è Torino, dove è necessario che la sua mano faccia ciò che la mano del figlio deve evitare. L’onore della famiglia deve essere difeso, e se per farlo dovrà uccidere la figlia Ionia che ha fatto della prostituzione il suo lavoro, lo farà.
“Gli pareva che il tempo non scorresse più, che un terribile colpo di mannaia avesse decapitato alberi e suoni e cose e gesti e l’ora”.
Due anime perse, cupe, stanche. Due silenzi fatti uomini e padri. La lingua di Arpino dà forma e peso agli sguardi e ai gesti.
Secca come un’incisione fatta col bulino a tratti si illumina, fiorisce come un seme impazzito capace di dare frutti mai visti.
Il fratello italiano è un viaggio attraverso relazioni fallite, in una città che tutto custodisce, cela e coltiva.
È una fotografia di quegli anni, gli ottanta del ‘900, gli ultimi brandelli di un’era che ci appare oggi lontanissima eppure indelebilmente presente nella memoria di chi c’era.
La commistione tra dolore, violenza e tenerezza eleva una storia privata a una storia sociale, universale.
Giovanni Arpino, Il fratello italiano
Premio campiello 1980
Bur contemporanea Rizzoli